Con la porta aperta è l’opera prima di Michele Palmieri. Nei dodici racconti emergono la fragilità dell’individuo e la precarietà delle emozioni.
I protagonisti hanno preso in prestito colori, immagini, rumori dal quotidiano. Tuttavia, non ci sono riferimenti specifici. Come nella vita, c’è cinismo, amore, dolore, gioia, risate, lacrime, sangue, raccontati con ritmo, parole, schemi diversi, a volte contrapposti, tra loro.
Il lettore è chiamato a creare delle prospettive alternative. Non subisce i racconti, ma li riscrive, completando personaggi, finali, opinioni per metterci la sua, di storia.
Il lettore è atteso, insomma…Con la porta aperta.
Buona lettura con il primo racconto Whisky e polvere…
Quando Christofer mi ha chiamato, era decisamente
eccitato. Non ha voluto anticiparmi niente. Dovevo vedere
con i miei occhi, mi ha detto. Ho provato a sondare,
ma non c’è stato verso di cavargli qualcosa in più.
Così, un po’ di curiosità, effettivamente, è riuscito a
infilarmela, sotto la pelle coriacea di cinico disilluso.
Me lo sono immaginato, mentre eravamo al telefono,
con il sopracciglio tremante e il continuo tormentarsi
il labbro inferiore, i suoi tipici tic che lo inseguono
fin da piccolo, quando è particolarmente nervoso.
Infatti, appena sono riuscito a trovare un attimo dal
lavoro, sono corso a casa sua. In effetti, mi sono mentito
spudoratamente, perché ero solo a poco più della
metà, ma ho preso comunque la giacca e sono uscito,
veloce.
Mi stava già aspettando giù, in strada, ha agganciato
con la mano la maniglia della portiera, mentre non ero
ancora fermo ed è salito in tutta fretta, come fossimo
inseguiti da spietati killer. Tirando a sé la portiera, forte,
mi ha detto di partire, senza nemmeno un “ciao”.
Visto il concitamento che ha messo in tutta questa storia
e in questi ultimi gesti, avrei voluto partire sgommando,
ma ho preferito evitare, per non dargli ulteriore
corda, perché, sono certo, non avrebbe colto l’ironia.
«Ciao anche a te, fratello.»
Non mi ha né calcolato né risposto, ma, subito dopo,
ha aggiunto di andare a casa di mamma.
È strano, continuiamo a chiamarla la casa di mamma,
anche se ora è nostra e disabitata e, nonostante
papà ci abbia vissuto, due anni da solo, dopo che lei è
morta, a quasi quaranta anni dal loro matrimonio, nei
quali non si erano mai persi di vista un solo attimo.
Inoltre, la casa era stata, a sua volta, ereditata da mio
padre dalla sua famiglia, quindi, mia mamma non c’entrava
proprio nulla. Legalmente. Perché, praticamente
invece, era lei il perno della famiglia e della casa.
Ho provato a rifargli qualche domanda nel tragitto,
non lungo, ma congestionato dal traffico. Al terzo tentativo
fallito, ho rinunciato, però mi è venuta voglia di
stringergli la coscia, appena sopra il ginocchio, con il
pollice e l’indice, come facevamo da piccoli, all’improvviso,
per farci male a vicenda. Normalmente, mio
fratello non è per niente criptico, anzi devi bloccarlo e
scandirgli, per bene, il divieto di parlare su ogni cosa,
altrimenti è un fiume in piena.
Per tutto il tempo in macchina, ha parlato pochissimo
e continuava a farsi sobbalzare la gamba, sulla punta
delle dita del piede sinistro.
Più che altro, rispondeva stiticamente alle mie domande,
usando il minor numero possibile di parole. Ho
cominciato a parlargli del mio lavoro, alternando delle
domande sul suo, così giusto per farlo partecipe e cercare
di distrarlo da questo chiodo fisso, che sta a casa
di mamma e conficcato nella sua testa, a quanto pare.
Mi sono sempre sentito responsabile di Chris. L’ho
sempre trattato da fratello minore, anche se ora, a quasi
quarant’anni e con soli due anni di differenza, non è
che ci sia tutta questa necessità. Ma è che mi sono abituato,
dai tempi delle elementari: io quello alto e grosso
e lui quello piccolo e rompiscatole e, per questo, tutti
volevano picchiare. Oggi, io continuo ad essere quello
robusto, lui quello rompiscatole, ma siamo alla stessa
altezza e molto simili somaticamente. Sembriamo la
stessa persona, ma in due taglie diverse.
Abbiamo parcheggiato nell’atrio del palazzetto, della
nostra famiglia da diverse generazioni, ormai. È un
edificio che, razionalmente, dovremmo vendere, ma
affettivamente non ci riusciamo. Troppi ricordi, molti
profumi che ci tramandiamo e ci preoccupiamo di custodire
con gelosia e sappiamo che difficilmente ci verremo
ad abitare, almeno non nell’immediato. Chris,
dopo essere sceso dalla macchina, ma prima di avviarsi,
diversamente dal solito, ha aspettato che i bracci
motorizzati richiudessero lo spesso portone in metallo
foderato dai due rivestimenti in noce. Ho cercato di
prenderlo in giro del perché di quelle inutili precauzioni
da spia, ma mi ha solo guardato male, senza nemmeno
accennare ad un sorriso di cortesia.
Sempre senza parlare, mi ha indicato di dirigermi
verso la rimessa, mentre io sarei andato direttamente al
primo piano, per abitudine. La porta basculante si è
sollevata in un attimo, senza il minimo rumore ed ho
capito che ci deve aver messo le mani e che ci è venuto
spesso, ultimamente, perché mi ricordavo che serviva
una gran fatica per aprirla, con un fischio tremendo,
come sottofondo.
Più o meno, era come la ricordassi, una volta all’interno.
Un ammasso di cose, mobili, scatoloni, uno scenario,
che si ripete identico e immutato da quando eravamo
bambini ed era la nostra stanza dei giochi preferita,
soprattutto dal giorno in cui, rovistando, trovammo
una baionetta della Prima guerra mondiale ed una
pipa, che in famiglia si diceva essere appartenuta a
Francesco II, l’ultimo re Borbone. L’odore che riempiva
le narici, era un misto di polvere, legno, cellulosa, che,
però, mi impregnava la mente e le emozioni. Nonostante
non fosse il migliore dei profumi, rendeva la
permanenza piacevole.
Alla fine, non ho resistito e sono sbottato, esortando,
ancora una volta, mio fratello a parlare. Nel farlo, ho
alzato la voce, ho sentito quel tono stizzito correre tra
noi e piazzarsi al centro, a tenerci distanti sì, ma ad impedire
di separarci o picchiarci. Sempre senza parlare,
Chris è sparito dietro un enorme armadio ed ha cominciato
a trascinare qualcosa. Non lo vedevo ancora, però
sentivo i suoi lamenti sommessi, per lo sforzo e l’attrito
sul pavimento, per il continuo strisciare di cose. Se mi
avesse chiesto una mano, sarei andato, ma dato che ha
continuato quel ridicolo gioco del silenzio, ho aspettato,
sotto la luce fioca della rimessa, che rispuntasse da
là dietro, affaticato, magari dolorante e grondante di
sudore.
Finalmente, dopo un po’ è riemerso. È venuto verso
di me con un foglio ingiallito, aperto, ma con evidenti i
segni delle piegature. Era una bolla, di quelle scritte a
mano su carta chimica, per farne più copie contemporaneamente.
Mi ha detto di leggere. Era di aprile, del
1995, le parti stampate si riferivano ai dati di una società
anonima colombiana di Bogotà. Il destinatario, scritto
a mano, presso l’indirizzo della nostra casa, era il
mio nonno omonimo, Robert. Prima di leggere a cosa si
accompagnasse, mi è venuta una frenesia strana, che
mi attanagliava la bocca dello stomaco e mi spingeva a
vedere la scatola, e solo dopo, continuare a leggere tutto
il contenuto del documento. Mi ero convinto, infatti,
che si trattasse di droga, nascosta tra grani di caffè, non
rendendomi conto, sul momento, di quanto fosse stereotipato
e preconcetto il mio pensiero, condizionato,
probabilmente, dal comportamento di mio fratello.
Chris mi ha portato, quindi, davanti ad una cassa rettangolare
in legno, con alcuni marchi a fuoco e diversi
foglietti colorati attaccati in più punti. Istantaneamente,
ho sostituito il contenuto immaginato l’attimo prima,
con armi, fucili ad essere più precisi, ed ho sentito l’accelerazione
del mio battito, violento, alle tempie e in
gola. Sono stato tentato di correre verso la cassa e sollevare
il coperchio, ma contemporaneamente, c’era una
specie di forza interna che mi bloccava e spingeva verso
quella porta basculante e silenziosa e farmi fuggire,
lontano da quel posto, mio e non mio, insieme. Però,
quest’ultima opzione mi è sembrata da subito stupida.
Non potevo più tornare indietro, non potevo fare finta
di non aver vissuto, quei momenti. Ormai ero lì, dovevo
scoprire il contenuto e decidere il da farsi, cercando
di essere il più lucido possibile, perché Chris non mi
sembrava totalmente in sé. Dovevo fare il fratello maggiore.
Ancora una volta.
E, ancora una volta, la mia curiosità non ha avuto
facile risposta, perché sollevando il coperchio, è venuta
fuori soltanto paglia, ancora vaporosa, nonostante gli
anni, ma che non mi faceva vedere il contenuto. Però,
ormai sapevo che mancavano soltanto pochi secondi,
per le mie risposte. Ho dovuto ficcarci un bel po’ le
mani e rovistarci in mezzo, per tirare fuori, una per
volta e lentamente, dodici bottiglie di whisky, tutto
scozzese. Almeno, ho scongiurato traffici illeciti internazionali
di armi e droga.
Cartelli violenti e aggressivi, sarebbero rimasti fuori
la porta di casa. Allo stesso tempo, mentre mi rincuoravo
per gli scampati pericoli, ero anche deluso, ormai
già quasi speravo di poter vivere una spy story di periferia
e infantile, vergognandomene, pure, ma solo un
po’. Mi sono girato di scatto verso Chris che, nel frattempo,
si era seduto e, stranamente, aveva recuperato
tutta la calma perduta, almeno così sembrava. Come se
il dividere il peso della notizia, lo facesse stare meglio.
Deve avermi visto stampato un enorme punto interrogativo
sulla faccia, perché non ha aspettato altre domande
e mi ha intimato di leggere le etichette.
Non le ho lette in ordine, bottiglia per bottiglia, ma
passavo dall’una all’altra con smania. Tutte e dodici
Macallan e tutte con un invecchiamento superiore ai
trenta anni. Ok, che ci trovassimo di fronte ad un picco-
lo tesoretto, l’ho capito subito. La maggior parte, aveva
un invecchiamento di sessanta anni.
Un “Wow!”, colorato e tipico dei fumetti, ha cominciato
a lampeggiarmi nella testa, che quasi lo vedevo
proiettato sul muro, dove ho notato anche una ragnatela
triste, nell’angolo in alto.
Non avevo mai avuto per le mani qualcosa di simile.
E non vedevo l’ora di aprirne una e capire fino a che
punto arrivasse la sensibilità del mio palato. Appena
l’ho detto a Chris, ha cominciato a ridere e ha tirato
fuori, dalla tasca posteriore del jeans, un foglio stropicciato,
ma recente. Ovviamente, sempre in questa sua
nuova modalità silenziosa, che deve piacergli proprio
tanto, è evidente. Sarà che per tanti anni ho subito i
suoi logorroici e, a volte, inutili discorsi, ma, e non
l’avrei mai sospettato, questa sua versione muta, mi è
cominciata a dare sui nervi. La trovo fuori tempo massimo.
Sul foglio ci sono estratti di ricerche in internet. È
andato a guardarsi siti specializzati, articoli di giornali
ed anche case d’aste. Riprendo, ad una ad una, le bottiglie,
stavolta dedicando un tempo maggiore ed un’accuratezza
nella lettura. Deve essermi sfuggito qualcosa
e voglio scoprire cosa.
La prima bottiglia è un The Macallan 60 Year Old
1926, con un’etichetta firmata da Valerio Adami. Sul
momento, non so chi sia, ma ho pensato subito che fosse
uno importante, se ha firmato un’etichetta. Escono
altre bottiglie, sempre dello stesso whisky e sempre con
etichetta di Adami. Quindi, è la volta di un paio di bot-
tiglie di The Macallan M 1940 Costantino e, poi ancora
le bottiglie di prima, ma con etichetta di Peter Blake.
Stavolta, il nome mi dice qualcosa e, poi la mia memoria
mi ha suggerito anche cosa. Infine, chiudono altre
due bottiglie di M 1940 Costantino.
Ho continuato ad avere il pensiero fisso nella testa
di aprirne una, magari con un colpo di scena improvviso,
per impressionare mio fratello, però, altrettanto velocemente,
il calcolo approssimativo, e per difetto, di
cinque milioni di euro, è bastato a frenarmi. È ricomparsa
la scritta del fumetto a lampeggiarmi, tutt’intorno,
stavolta.
Non riesco a staccarmi da queste bottiglie, voglio
toccarle, averle tra le mani, giocarci. Al tempo stesso,
comincio a capire un po’ di più Chris, e mi immagino
che abbia scoperto la cassa un po’ di tempo fa, ma si sia
goduto questo tesoro tutto per sé. Non ho mai pensato
che volesse fregarmi, però mi sono incazzato, perché
mi ha sottratto, per un po’, forse anche un bel po’, la
gioia di saperle mie e possederle.
Passata l’euforia iniziale, mi è balenata la possibilità
che fossero dei falsi, ma Chris, mi ha rassicurato, parlandomi
di tutte le ricerche condotte e non ritiene, per
nessun motivo, che non siano autentiche. Si è iscritto,
in forma anonima, a dei blog, proprio per saperne il
più possibile.
È talmente enorme lo stupore che cerco di trovare,
inutilmente, il pelo nell’uovo. Quindi mi aggrappo al
dubbio del perché siano state spedite a mio nonno. I
superalcolici non rientravano nel suo regime alimenta-
re, abituato com’era ad un solo calice di vino, generalmente
rosso, e solo la domenica o qualche festa particolare.
È da escludere che le avesse comprate. Ma poi,
seppure lo avesse fatto, perché non aprire la cassa? E
mio padre sapeva di queste bottiglie?
Ci rendiamo conto, io e Chris, che per quanto ci impegniamo,
rimarranno sempre troppe le domande a cui
non potremo e sapremo rispondere.
Nessun biglietto, nessuna lettera, niente che in qualche
modo ci indicasse un perché, eccetto quella bolla
ingiallita, che specificava solo i dati generici di mittente
e destinatario, però.
Negli anni Novanta, nostro nonno era già in pensione
e, per quanto facoltosi potessero essere i suoi clienti,
quasi niente potrebbe giustificare un così alto compenso
o regalo di gratitudine. Se lo avessero usato come
prestanome, qualcuno le avrebbe certamente reclamate,
in qualche modo. Invece, in questo quarto di secolo,
sono rimaste sepolte tra mobili e polvere. Per un po’,
non facciamo altro se non fare e disfare ipotesi, supposizioni.
Mi accorgo, ancora una volta, di quanto Chris
sia più avanti, segno evidente che ha già percorso da
solo tutta questa trafila, tenendomi all’oscuro. Senza
prestargli ascolto, mi carico in macchina la cassa e tutto
il contenuto, intenzionato a portarmele a casa. Ribatto
che siano più al sicuro in una casa abitata, che in una
rimessa di un palazzo disabitato, non riuscendo ad
ammettere, perché lo trovo estremamente immaturo,
quasi un capriccio, che il motivo reale è averle vicino,
guardarmele, toccarle, coccolarle, recuperare un po’ di
quel tempo, di cui lui mi ha privato, ingiustamente.
Una volta finite le congetture e la rapida discussione,
mi sono sentito stanco e spossato. Nel riportare a
casa mio fratello, ho parlato pochissimo, come imitandolo,
e non riuscivo nemmeno a pensare più di tanto.
Ho sentito solo di sfuggita quello che mi diceva, dimenticando
tutto, appena è sceso dalla mia auto. Una
volta solo, sono corso a casa ed ho trasportato il carico
nella camera mansardata, dove ho le mie cose a cui
tengo di più. Più per creare un effetto scenico che perché
mi andasse sul serio, mi sono versato un bicchiere
di whisky, nemmeno lontanamente prezioso come
quello scoperto. Ogni volta che in enoteca ho acquistato
questo Lagavulin, mi sono sempre sentito quasi un
privilegiato, ora mi accorgo, invece, di come si possa
relativizzare praticamente tutto, nella vita. Ho contemplato
per non so quante ore il panorama fuori, dalla
mia poltrona, annusando continuamente il bicchiere,
ma bevendo pochissimo. Cosa volessi o dove volessi
approdare non l’ho capito, se non realizzare di continuare
a sentirmi senza forze.
Quando mi sono alzato, ho cominciato ad effettuare
tutta una serie di ricerche in internet, come a confutare
quanto trovato da mio fratello. Ma erano tutte continue
conferme.
So bene che dobbiamo trovare il modo di venderle,
ma ho la paura, ma anche un po’ il desiderio, che facciano
già parte della mia vita, come il palazzetto di famiglia,
in centro.
Al centro della nostra vita, come un’anima.